mercoledì 17 gennaio 2024

Ivan il terribile e suo figlio Ivan - Orrori su Tela

Il più grande paradosso dell’esistenza umana è la stasi permanente creatasi nell’abisso che separa le emozioni provate e l’innata incapacità di controllarle. La voragine che le divide è piuttosto ampia: qualcuno potrebbe vederla come una benedizione, siamo liberi dai meccanismi del controllo che potrebbero intaccare in qualche modo la naturale fisionomia del sentimento; altri, invece, potrebbero interpretarla come una condanna.

Proprio il dominio sulle emozioni, che ne comprometterebbe l’autentico fluire, è lo stesso ingrediente segreto che renderebbe la vita più facile a tutti, meno segregata nella sfera dell’imprevedibilità. I tratti più dolorosi della nostra esistenza, legati indissolubilmente alle nostre passioni e tormenti, non sono altro che il paradigma di ciò che siamo e di ciò che non abbiamo.

La rabbia, in particolare, è un’emozione primaria (ossia generata a livello sottocorticale), che si innesca nel momento in cui il soggetto sente di aver subito un’ingiustizia, o si sente minacciato. È probabilmente l’emozione più impegnativa dal punto di vista fisiologico. Ad esempio, attiva a livello neurobiologico delle aree specifiche del cervello, cioè l’amigdala e il sistema limbico, responsabili dell’ira e dell’impulsività.

Nel corso dei secoli sono stati molti i filosofi che si sono espressi circa la rabbia, a partire dal mondo antico. Seneca ha definito l’ira come una passione dagli effetti assolutamente deleteri, responsabile di tutti i flagelli e le violenze del mondo, paragonandola ad una belva feroce che va domata. D’altro canto, le posizioni degli stoici non sono dissimili. Ritenevano, infatti, che se l'uomo eradicasse completamente la collera, avremmo un mondo moralmente migliore. È proprio la dimensione morale della rabbia a rappresentare il baricentro di tutte le discussioni circa l’argomento, ma è altrettanto discutibile che la rabbia sia moralmente necessaria agli individui nel meccanismo primordiale di difesa che accomuna tutti.

L’impulsività è forse la conseguenza più drastica della rabbia, che si concretizza spesso in atti di violenza. Un caso paradigmatico di tali effetti drammatici è il celebre dipinto, realizzato da Ilya Repin fra il 1881 e il 1883, intitolato Ivan il Terribile e suo figlio Ivan.

Il quadro è un olio su tela dalle dimensioni di 199.5 cm x 254 cm, raffigurante uno dei momenti più drammatici della vita dello zar Ivan IV Vasilyevich, anche conosciuto come Ivan “Grozny”, o Ivan il Terribile. Successivamente alla sua realizzazione, fu acquistato dall’uomo d’affari di Mosca Pavel Tretyakov, che lo mise in mostra nella sua galleria. Tuttavia, lo zar Alessandro III trovò l’opera d’arte irrispettosa e offensiva, tanto che fu temporaneamente bandita dall’esposizione pubblica.

Ivan era un individuo particolarmente complesso, che nel corso della sua giovinezza ha subito diversi traumi. Aveva appena tre anni quando fu scelto per succedere come Gran Principe a suo padre e, al momento dell’incoronazione, la Russia era divisa in vere e proprie fazioni di aristocratici, che si contendevano il dominio politico. Proprio a causa di questo scenario turbolento la madre di Ivan fu scelta per governare il paese fino a che il figlio non avesse raggiunto l'età adulta, ma il piano fallì quando fu avvelenata e morì tragicamente. Da quel momento in poi Ivan fu maltrattato dalle varie caste fino al 1538, quando poté subentrare politicamente. Durante il suo regno la Russia è passata da regno feudale a Impero e, in quanto primo zar del paese, stabilì i principi politici che ne fecero una vera e propria nazione. Il suo temperamento era decisamente incline all’impulsività irruenta, come testimonia il fatto che suo figlio, Ivan il Giovane, fosse frustrato dal numero di litigi infruttuosi che causava il padre, tanto che iniziò ad esprimersi contro la sua condotta. Il loro legame, nonostante ciò, era particolarmente forte, avendo anche combattuto fianco a fianco in passato. Per questo motivo, il giovane Ivan non avrebbe mai immaginato che proprio il temperamento iracondo di suo padre lo avrebbe condotto alla morte.

Il dipinto di Repin cattura l’attimo in cui, il 19 Novembre del 1581, Ivan il Terribile realizza di aver appena ucciso suo figlio. Secondo gli storici, una lite fra i due avrebbe innescato quell’atto di violenza inaudita, dopo che la terza moglie di Ivan il Giovane, Yelena Sheremeteva, sarebbe passata in sottoveste davanti allo zar, gesto oltraggioso nei confronti del monarca.
Иван Грозный и сын его Ива
Ivan il Terribile, vestito di abiti scuri, regge il figlio alla vita, mentre con la mano cerca di fermare l’emorragia alla testa, che lo avrebbe successivamente portato alla morte. L’arma del delitto è in bella vista, un bastone posizionato sulla parte anteriore del dettagliato tappeto, sul quale si svolge la tragica scena. Gli occhi spalancati esprimono le emozioni provate dallo zar, quasi si riesce ad immaginare ogni fibra del suo corpo in fibrillazione a causa dello shock. Ha appena ucciso suo figlio, nonché unico erede sano al trono. Il viso è sporco degli schizzi di sangue, provocati dall’impatto del bastone sulla testa di Ivan il Giovane, rendendone l'espressione ancora più inquietante.

È interessante notare come lo sguardo di Ivan il Terribile, così carico di sofferenza e di orrore, non sia direttamente rivolto verso il figlio morente. Sembra quasi che lo zar, in preda al panico, non riesca a confrontarsi direttamente con le conseguenze del suo impeto di rabbia, scosso dal rimorso e consumato dal senso di colpa. La mano del figlio, poggiata sulla spalla del padre, è l’ultimo gesto di amore e perdono che Ivan il Giovane è stato in grado di compiere, mentre la vita abbandonava lentamente il suo corpo, come testimonia lo sguardo assente.

L’intento di Repin nella realizzazione del quadro era quello di sensibilizzare le persone sul tema della violenza, dopo gli eventi politici del 1881 (che si risolsero nella morte dello zar Alessandro II), sperando di dissuadere chiunque altro volesse impegnarsi in atti altrettanto truculenti.

A questo punto, risulta lecito chiedersi quanto moralmente necessaria sia la rabbia.
 
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4 commenti:

Franco ha detto...

Ancora uno scritto di Manuela Griffo che sorprende per la capacità di incantare il lettore tra conoscenze scientifiche, artistiche e storiche legate da un linguaggio fluido che innesca, in chi legge, la necessità di confrontarsi con le riflessioni che Immancabilmente l'autrice provoca.

Michela ha detto...

Articolo che dalla descrizione di una pittura, riesce, magistralmente, a percorrere i meandri dell'animo umano fino ad arrivare, con grande semplicità, a interrogarci sui nostri comportamenti.

Elizabeth ha detto...

Articolo paradossalmente complesso e semplice al contempo. Molto interessante il viaggio a cui si è portati attraverso discipline, reminescenze, analisi e scoperte. Una lettura fluida pur mantenendo l'intensità. Il legame tra passato e futuro che in un attimo diventa presente e deciso ponendo lo sguardo interiore su se stessi è d'impatto. Ogni opera dovrebbe avere un racconto così magnetico. E passeremmo ore nei musei. Complimenti!

Florinda ha detto...

[17/1, Florinda: Il dolore non si può cancellare, ma si può riempire di significato e dare, così, un senso alla vita. La rabbia incontrollata verso ciò che non si accetta è solo distruttrice.Per questo l 'incontro più importante nella nostra vita, se vogliamo che acquisìti un senso, è l'incontro con sé stessi, nella verità...senza paura
[17/1, Le emozioni non vanno dominate, ma controllate, come afferma la bravissima autrice di questo articolo👏👏👏